L’immersione in un reparto “COVID”

Filippo Randelli

Centro di Chirurgia dell’Anca Displasica (CAD), ASST Centro Specialistico Ortopedico Traumatologico Gaetano Pini-CTO, Milano, Università di Milano

DOI 10.32050/0390-0134-258

Si, è come una immersione.

C’è un Divemaster (la tua guida), un briefing, una vestizione (accurata, mi raccomando, per quanto possibile, certamente!), un “appena prima di tuffarsi” (quando un pochino, per una frazione di secondo, ti si ferma il respiro), un tuffo che qui è una porta di metallo con oblò (anche per questo mi è venuta in mente una immersione). Un oblò che si apre con fatica. Pesante. E sei dentro.

La luce cambia. I rumori cambiano. La temperatura cambia. Un altro mondo.

Il respiro in una normale immersione è tutto. Anche in questa. Anzi di più. Qui è il confine.

Non solo il tuo di respiro, affaticato perché un dispositivo tenta di allontanarti dall’aria circostante, ma, soprattutto, quello degli altri, i Pazienti. Chi l’immersione l’ha iniziata da tempo e non è ancora riemerso. Esseri Umani. Persone, vecchi, giovani, nonni, mamme, nonne, papà, fratelli, sorelle, figli. Di tutti i tipi. Di tutte le etnie. Uniti. Tutti lontani dai loro cari e dalle loro vite. Sono a diverse profondità, più o meno vicini al fondo.

Ma una volta toccato, dal fondo si risale con grandissima difficoltà. Anzi più spesso non si risale.

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